Non mi estenderò, visto il poco tempo che abbiamo a disposizione, a esporre e commentare i documenti del magistero della Chiesa in materia di musica sacra da San Pio X ai giorni nostri. L’itinerario magisteriale si fa presto a percorrere: “Inter sollicitudines” (motu proprio di San Pio X), nel 1903, la cui validità viene confermata dal successivo magistero, in cui spiccano la costituzione apostolica “Divini cultus” di Pio XI, del 1928; le encicliche “Mediator Dei” del 1947, e ancora più precisamente, la “Musicae sacrae disciplina”, del 1955, ambedue di Pio XII, seguite dalla Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti del 1958, per giungere al solenne documento del Concilio Vaticano II, con la prima Costituzione approvata in ordine di tempo, nel dicembre 1963, e cioè la “Sacrosanctum Concilium”, con il suo famoso cap. VI dedicato per intero alla musica sacra, cui fece seguito nel 1967 l’Istruzione della Sacra Congregazione dei Riti sull’applicazione delle direttive conciliari in materia, documento di cui si sta commemorando il 50°. Poi, più nulla fino al chirografo di S. Giovanni Paolo II nel centenario del motu proprio di S. Pio X, dal titolo “Mosso dal vivo desiderio”, del 2003. Dopo di che cala il sipario.
A nessuno sfugge l’importanza capitale del documento di San Pio X, che raccoglieva e traduceva in atto i vari fermenti da tempo esistenti nei vari ambiti, e che si proponeva come una vigorosa reazione al dilagare della musica profana nel tempio, musica di stampo teatrale, pur sempre preferibile al dilagare attuale della canzonetta, dai testi e musiche spesso irriferibili, cattiva imitazione della più bieca musica leggera assorta e legittima espressione dell’odierna sensibilità, specie giovanile, in netta contraddizione invece con quelle che erano le vere intenzioni del Concilio. Fino al giorno d’oggi non è stato possibile – forse è mancata la ferma volontà – di porre argine a tanto disordine. A nulla è valso il chirografo di S. Giovanni Paolo II, impeccabile nel contenuto, ma quasi adempimento formale, senza intenzione di giungere ad un qualunque risultato concreto. A nulla è valso il pontificato di un Papa così sensibile al problema come Benedetto XVI. Non siamo più nei tempi di San Pio X e immediati successori, in cui ci si poteva permettere di dettare un “codice giuridico della musica sacra” che imponeva l’obbligo dell’osservanza, dal primo all’ultimo. L’autorità si è frantumata, e ora ognuno fa quel che gli pare, giungendo alle aberrazioni più esecrabili, meritevoli, ahimè, di indiscriminate benedizioni a destra e a manca.
Non era questa l’intenzione di Paolo VI, il beato Paolo VI, a cui si è voluta imputare “in radice” la causa del conseguente disordine. Sappiamo quanto soffrì nel vedere che l’augurata “primavera conciliare” stava sfiorendo, precipitando invece in un gelido inverno. Mi si permetta di rompere una lancia in suo favore. Egli ebbe a ben sottolineare nel discorso di chiusura della II sessione del Concilio: “Esulta l’animo nostro per questo risultato (la Costituzione sulla Liturgia). Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto; la preghiera nostra prima obbligazione; la liturgia la prima fonte della vita divina a noi comunicata. Qui non possiamo non ricordare l’accurata osservanza della liturgia fra i fedeli dei riti orientali […]. Sarà bene che noi facciamo tesoro di questo frutto del nostro concilio […]. Se qualche semplificazione noi ora portiamo alla espressione del nostro culto e se cerchiamo di renderlo più comprensibile al popolo fedele, e più consono al suo presente linguaggio, non vogliamo certamente diminuire l’importanza della preghiera […] né impoverirla della sua forza espressiva e del suo fascino artistico; bensì vogliamo renderla più pura, più genuina, più vicina alle sue fonti di verità e di grazia […]. Perché ciò sia, desideriamo che nessuno attenti alla regola della preghiera della Chiesa con riforme private o riti singolari.”
E ancora, nel discorso di apertura della stessa sessione aveva detto: “Sì, il concilio tende ad un rinnovamento. Non è la riforma, a cui mira il concilio, un sovvertimento della vita presente della Chiesa, ovvero una rottura con la sua tradizione in ciò che essa ha di essenziale e di venerabile, ma piuttosto un omaggio a tale tradizione, nell’atto stesso che la vuole spogliare d’ogni caduca e difettosa manifestazione, per renderla genuina e feconda.”
Qualcuno ha obiettato a S. Pio X l’aver quasi imprigionato le forze creative su degli schemi di obbligato percorso. No, il Papa ricorda i principi cardine, le note caratteristiche della musica sacra: santità, bontà di forme o vera arte, e universalità, e addita come “modello supremo” il canto gregoriano e anche la polifonia sacra (quella, in specie, scaturita dal Concilio di Trento). Ma dice parimenti: “La Chiesa ha sempre riconosciuto e favorito il progresso delle arti; ammettendo al servizio del culto tutto ciò che il genio ha saputo trarre di buono e di bello nel corso dei secoli, salve però sempre le leggi liturgiche. Per conseguenza la musica moderna è pure ammessa in chiesa, offrendo anch’essa composizioni di tale bontà, serietà e gravità, che non sono per nulla indegne delle funzioni liturgiche.”
Non è certo colpa del Papa se certi autori dell’epoca, e anche dopo si sono limitati a imitare, se non addirittura scimmiottare, le opere del passato, offrendo prodotti di scarsa qualità. Paolo VI rincara la dose, e se ne assumeva parte di responsabilità, a nome della Chiesa quando, rivolgendosi agli artisti nel 1964, diceva: “Vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati […], all’opera d’arte di poco pregio […]; siamo andati anche noi per vicoli traversi dove l’arte e la bellezza e – ciò che è peggio per noi – il culto di Dio sono stati male serviti.” Però, pur i mezzo alla mediocrità, sorgono dei musicisti di genio, capaci di dire una propria parola, coniugando nobilmente tradizione e modernità: Perosi, Refice, Casimiri, Bartolucci, Renzi, per fare solo qualche nome fra i nostrani più prestigiosi.
Benedetti quei tempi in cui questi artisti trovavano credito presso la Chiesa, e fiorivano dappertutto, dalle maggiori basiliche alle più umili parrocchie, le Scholae Cantorum, come presso i Seminari, case di formazione religiosa, etc. E c’era la volontà di fare le cose per bene, a gloria di Dio ed edificazione del popolo di Dio. Mettendo invece l’orgoglio umano al centro, insistendo troppo sulla dimensione orizzontale a scapito di quella verticale, siamo giunti a dei risultati ben poco consolanti, in cui, inoltre, qualsiasi voce valida viene accuratamente soffocata, affinché non venga a turbare l’”aurea mediocritas” dello “status quo”. Una riforma? Sì, ma chi, quando, come, dove? … Eppure, dopo 50 anni, riecheggiano ancora le parole del messaggio agli artisti del Vaticano II: “Questo mondo in cui viviamo ha bisogno della bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani… che queste mani siano pure e disinteressate! Ricordatevi che siete custodi della bellezza nel mondo: che ciò è sufficiente ad affrancarvi dai gusti effimeri e senza vero valore, a liberarvi dalla ricerca di espressioni strane e sconvenienti. Siate sempre e ovunque degni del vostro ideale, e sarete degni della Chiesa”.
Roma, 29 ottobre 2016
Valentino Miserachs Grau